Strani spiriti del folklore giapponese
Nel vasto e intricato mondo del folklore giapponese, una delle categorie più affascinanti è rappresentata dai Tsukumogami (付喪神), termine che si riferisce agli oggetti inanimati che, dopo cento anni di esistenza, acquisiscono uno spirito e prendono vita. Secondo questa credenza, ogni cosa - dalla più semplice ciotola a un ombrello dimenticato - può diventare consapevole, sviluppare un'anima e, in alcuni casi, persino vendicarsi per essere stata trascurata o gettata via.
Il termine tsukumogami è composto dai kanji 付 (tsuku, “attaccarsi”) e 喪神 (mogami, “spirito divino” o “entità spirituale”), evocando quindi l’idea che qualcosa di spirituale - qualcosa di esterno alla natura dell'oggetto - si aggrappi ad esso rendendolo vivo.
La prima menzione sistematica dei Tsukumogami compare nel periodo Heian (794–1185), ma la loro codificazione folklorica risale al periodo Muromachi (1336–1573), dove compaiono in celebri rotoli illustrati come lo Tsukumogami Emaki. In queste opere, vecchi strumenti da cucina, strumenti musicali o attrezzi domestici si animano e partecipano a cortei notturni, molto simili alla Hyakki Yagyō, la parata dei cento demoni.
In queste raffigurazioni, gli oggetti hanno spesso occhi, braccia, gambe o lingue sporgenti, e il loro aspetto è grottesco ma anche caricaturale. Alcuni sono ostili, altri più scherzosi, ma quasi tutti agiscono spinti da una forma di risentimento per essere stati trascurati.
Tra i Tsukumogami più famosi possiamo citare:
- Karakasa-obake (からかさお化け): un ombrello con un occhio, una lingua lunga e una sola gamba, spesso rappresentato in forma buffa.
- Chōchin-obake: la lanterna di carta che assume un volto demoniaco.
- Biwa-bokuboku: un antico strumento a corde trasformato in spirito musicante.
- Ittan-momen: una striscia di stoffa che vola nella notte e può avvolgere le sue vittime come un serpente tra le sue spire.
Tutti questi esseri sono stati creati, appositamente, per tramandare una lezione morale agli uomini: anche ciò che sembra inutile o vecchio merita rispetto, perché ogni cosa ha uno spirito, secondo la visione animista dello Shintō.
La leggenda delle maschere che parlano
Una delle storie più suggestive collegate al concetto di Tsukumogami è quella delle maschere del teatro Nō che prendono vita. Secondo una leggenda, una maschera di Hannya - raffigurante un demone femminile colmo di gelosia - era stata utilizzata per anni in spettacoli rituali, finché un giorno non cominciò a muovere la bocca da sola durante una rappresentazione, emettendo un suono lamentoso. L’attore, terrorizzato, fuggì dal palco. Si scoprì poi che la maschera non era mai stata ben custodita e che lo spirito dell’oggetto si era infuriato per essere stato trattato come un semplice ornamento.
Un’altra variante di questa bella leggenda giapponese narra di maschere che sussurrano durante la notte nei magazzini dei templi, recitando versi antichi o ridendo tra loro. Secondo i monaci, questo avviene quando le maschere, dimenticate e non più onorate, cominciano a cercare attenzione.
Il prpfondo significato culturale dietro i Tsukumogami
I Tsukumogami sono una manifestazione della sensibilità giapponese verso gli oggetti e il loro “spirito”. Questo rispetto profondo si riflette in pratiche come il Kuyō, cerimonia buddhista in cui si celebrano oggetti usati per lungo tempo, come aghi, spade o bambole, prima di disfarsene. È una forma di ringraziamento e liberazione che evita di scatenare energie demoniache.
Nella cultura moderna, i Tsukumogami sono stati riscoperti e reinterpretati da anime e manga, nei quali spesso appaiono come personaggi dotati di forte personalità e capavci di influenzare le scelte degli esseri umani, nel bene o nel male.